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mercoledì 15 gennaio 2014

MARATONA DI NEW YORK – recensione di Andrea Vecchia. In scena dal 14 al 19 gennaio 2014 al Rossetti di Trieste

MARATONA DI NEW YORK” – RECENSIONE di Andrea Vecchia
 Politeama Rossetti di Trieste, in scena dal 14 al 19 gennaio 2014
 “Sala Bartoli” – Cartellone “altripercosi”
 
Due amici, di spalle. Un paio di scarpe da ginnastica. La musica come un’evocazione. E innanzi a loro la proiezione di una New York in bianco e nero. Nostalgica nei suoi grattacieli allungati a sfiorare le nuvole. E subito si scende con gli occhi in un vortice malinconico di immagini in cui le luci della metropoli si trasfigurano in un cielo stellato. Inizia la corsa, nel buio. Una strada di terra battuta, illuminata a malapena, attende Mario e Steve. Mario è fragile, affaticato dai farmaci, di salute, malferma, il sangue pieno di codeina. Mario, il macho, sicuro si sé e determinato gli lancia la prima sfida: “Ce la fai?”. I piedi si muovono. Intorno non è bello. Non si vede un accidente. Andranno piano fino al passaggio a livello, come sempre. Mario ciondola, è dinoccolato, si muove “come uno scoppiato”, le mani scomposte. Mario è altero, imperturbabile, quasi aggressivo nella durezza atletica che esibisce. Gli astri incorniciano i loro i primi discorsi. Mozziconi di pensieri, mentre “Indietro non si torna” e la motivazione arriva da quel Filippide che portò da Maratona la notizia della vittoria degli Ateniesi. Poi è morto. Pare. “Facciamo una cosa che non ha senso. Che sappiamo che non ha senso ma ci impegniamo fino alla morte” grida un amico all’altro. Perché l’altro ha le gambe molli, e rimane indietro, inventando ogni scusa per fermarsi. Non trova le chiavi d’auto. Sarà rimasta aperta? E non vede il paracarro, quel paracarro che di solito li saluta al decimo minuto di corsa. “Vorrei correre indietro nel tempo per rompere tutte le facce che non ho rotto”, risponde al compagno, odiandolo per quel collo maledetto che gli mostra sempre quando lui, stanco, rimane indietro. “Io li odio i colli”.
 Si ride, ma il cielo stellato s’incrina. Flash perturbanti balenano negli occhi dello spettatore. Schegge di ricordi, istanti di vita rubata. Si prova a canticchiare qualche cosa. “Ma noi perché corriamo?” incalza Mario. “La maratona di New York… dobbiamo andarla a fare l’anno venturo, a novembre”. E la frase si ripete ipnotica, come una certezza, come una formula magica, avvolgendo quei ragazzi che corrono in un’angosciosa luce, di sospeso, sonnambolico surrealismo. Incombe, lento, un senso di sinistra attesa mentre gli squarci nella notte si fanno sempre più insistenti. Nel cielo appaiono volti, sorrisi, una giostra mentre “Festival” dei Sigur Ros scende come una preghiera malinconica tra i silenzi rarefatti e i grovigli di parole che accompagnano l’allenamento. “Steve, secondo te esiste Dio? Alla nostra età avremmo dovuto decidere se esiste. Da piccolo io credevo proprio a Dio invisibile, gli parlavo.”
 Poi la caduta di Mario. La corsa s’interrompe per un solo istante. Che è un abisso. Di cosa non è dato sapere. I ruoli s’invertono. Ora è Steve lo sfacciato, l’impavido. Guida l’amico affaticato nel mare della notte. Lui, l’insicuro, corre ora a testa alta, anche se sente freddo, tanto freddo. Poi i pensieri, maledetti, ad alta voce, come accade nei sogni, infrangono ogni logica narrativa mentre l’anima di chi guarda si rapprende in un indefinibile dolore. “Perché quando siamo partiti non c’era l’auto accanto a noi? Mi viene in mente la mamma quando da piccolo mi metteva i calzini. Improvvisamente penso che non mi amava. Amava solo te. Steve, noi siamo fratelli o siamo stati fratelli?”. “Mario, tu ci arrivi a New York, ci arrivi questa notte. Corri. Domani arriva il gelo cosmico”. “Steve c’eri anche tu sulla macchina o ero solo? Le chiavi sono in mezzo alle lamiere. Stefano, ma io che notizia devo portare?”.
 E il testo abbandona lo spettatore così, con violenza, nella vertigine del baratro, tra una colonna di fari accecanti calati all’improvviso in proscenio e il corpo esausto di Steve che taglia il traguardo nei vestiti di Mario.
 Cinquantacinque minuti di puro lirismo ginnico fanno di Maratona di New York di Edoardo Erba uno spettacolo necessario, recitato letteralmente tutto di corsa, a cui l’eccezionale performance attorale e registica di Cristian Giammarini e Giorgio Lupano regala frammenti di palpitante visionarietà. Da non perdere.
 

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